Corriere del Veneto
L’educazione di Mara nel tempo lento dei campi.
di Massimiliano Melilli
A volte i romanzi hanno un valore aggiunto: restituire alla vita storie in filigrana, vicende che altrimenti finirebbero nel dimenticatoio. Non è un caso se nella letteratura del Novecento si stia ritagliando uno spazio sempre più autorevole la Banca della Memoria con un volume in nome collettivo che Einaudi ha pubblicato di recente. Dunque il ricordo come grimaldello per scardinare alchimie e avanguardie di presunte nuove letterature. Così il lettore rimane piacevolmente spiazzato dall’esordio narrativo di Laura Lauzzana, origini friulane, studi filosofici con specialità in antropologia sociale, una vita a Padova, attualmente «romana», in passato instancabile viaggiatrice (Sud America, Europa, Africa). È come se le molte vite dell’autrice trovassero una sintesi seducente e convincente ne «Il resto del giorno» (Aliberti editore, 158 pagine, 16 euro).
Romanzo di formazione, impianto classico e solido, dallo stile asciutto che nulla cede alla retorica, è come un rosario da scorrere, lentamente. Racconta la storia di Mara, bambina che s’affaccia nell’oceano della vita in un mondo affollato: genitori, sorelle, fratelli, zie, nonni. Tutto intorno tante voci, interiori ed esterne. Sullo sfondo, gli elementi della natura che seguiranno la protagonista in un flusso quasi fabulatorio fino all’età della maturità, ammesso che invero ne esista una. Il viaggio di Mara nell’oceano della crescita è come quello di un guscio fra le onde. C’è la terra ovvero il luogo natale, un piccolo villaggio di campagna; c’è l’acqua a significare il mare della grande città dove si trasferisce Mara e c’è il fuoco dell’esistenza di una bambina che prima adolescente, poi donna, tutto divora con prassi e azioni costantemente in controtendenza. È il Nordest che (ri)vive in queste pagine e lo fa con una polifonia di suoni e immagini che colpiscono per nitidezza e immediatezza. «Avevo incubato la storia nei vent’anni trascorsi, l’avevo come assorbita – confessa Laura Lauzzana poi un giorno, da sola, è venuta a galla improvvisamente. Quanto a me, dopo anni in movimento ho avvertito l’urgenza di stare ferma. In quel momento è arrivata la scrittura. D’impulso, a getto continuo. Così il romanzo è lievitato giorno dopo giorno, naturalmente. È come se ci mettessimo in ascolto di noi stessi per un lungo periodo e dopo senti il bisogno di esprimere tutto con una fuga dal presente. Ho cercato volutamente uno stile sobrio, non condizionato dal linguaggio televisivo – riflette la scrittrice – volevo che parlassero solo le figure. Da una parte è la rivendicazione dell’individuo sulla massa, dall’altra, la rivincita dell’inconscio che si fa rifugio. Da questo angolo è nato il romanzo». Già, le figure. Le stesse che l’autrice, con un gioco d’intarsi in una sciarada di ricordi, pare mutuare e rimodulare dalla grande tradizione letteraria al femminile del Novecento.
Certe ambientazioni – l’humus della famiglia, l’approccio con la vita da collegio, il ritorno a casa – evocano «Le strade di polvere» di Rosetta Loy mentre dialoghi, ritratti e bozzetti in un’affollata arena di contesti e personalità, richiamano la «Bagheria» di Dacia Maraini. Paradossalmente «Il resto del giorno» è un romanzo familiare, anche a livello epidermico. Il lettore, alla resa dei conti, finisce per sentirlo proprio, tanto è verosimile l’alveo dal quale si snoda la trama. Per paradosso, si diceva, poiché Mara, la protagonista, è sì impegnata da sola nell’incontro-scontro con la vita ma alla resa dei conti, le figure genitoriali che paiono muoversi in seconda fila, di contro si esaltano nel vissuto dell’io narrante. Lo fanno fra gli alti e bassi della quotidianità: lavoro che non c’è, traslochi, vacanze comunque da fare, per i figli. Mara sospesa fra la campagna e il mare anche se alla fine tornerà alle origini. Struggente la descrizione di questa dicotomia. L’autrice l’affronta così: «Nella luminosità dei campi e lungo i fossati, la lentezza del tempo era diversa da quella del villaggio di Mara. Il mare interrompeva di tanto in tanto, col suo rumoreggiare, la morte apparente delle nebbie. Lì, invece, non si poteva sfuggire da orizzonti sempre fermi, sempre gli stessi, che dilatavano il tempo in un amorfo silenzio». Lo stesso silenzio nel quale immaginiamo l’autrice alla prese con la scrittura. «Devo molto ai silenzi, – confida quasi sussurrando Laura Lauzzana – è una dimensione che prediligo. Quanto alle voci, alle parole, alle esperienze, le affido volentieri alle figure di questo romanzo. Spero solo che non dispiacciano ai lettori». Affatto.